Anderville GDR

Gente Tranquilla, giurano, gente che si chiedeva dove andremo a finire

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Garet Jax
view post Posted on 26/4/2012, 19:14




Una giornata come un'altra, il sole alto nel cielo scaldava l'aria che, muovendosi in una brezza leggera, allontanava quella sensazione di calura sulla pelle. Ma l'aria era opaca, lo si notava guardando in lontananza, oscurata dallo smog, inquinamento che attaccava il naso e la gola. Ma le persone tutte intorno ignoravano, come avessero perso l'olfatto, come avessero gettato al vento gli occhi. Era sempre stato così. L'umano medio non vedeva, non voleva vedere. Eppure quella nebbia feriva il cielo, così profondamente da farlo urlare. Pensava di poterne sentire la voce quasi, come ad un uomo a cui stanno gettando sale sulle ferite aperte. Quindi decise. Andò al bosco, non aveva un mezzo ma ne recuperò uno, non suo ovviamente, e si immerse nella natura. Si dovette accontentare, riusciva quasi a stare in pace, anche se certo non poteva definire quei quattro alberi in croce una foresta. Ma ascoltò comunque le voci dei suoi fratelli mentre a passi lunghi esplorava, cominciando a conoscere quella terra e i suoi abitanti, così differenti dal centro cittadino praticamente lì accanto. Ascoltò, esplorò e si fece conoscere, mentre portava un po' di rispetto in una terra violata e violentata dall'uomo. Anche lì la presenza umana si faceva vedere.
Qualche tempo addietro doveva esserci stato un incendio in quella zona, anche se la vita si stava già riappropriando di quello spazio. Ovviamente. Il solo pensiero delle fiamme lo fece rabbrividire un attimo.
Si sedette dopo aver potato d'un ramo spezzato un vecchio sofferente, elevò una preghiera e si mise a lavorare. Incidere il legno per richiamare una forma definita da quella sostanza ormai morta. Dovette scavare nella memoria, a fondo, per recuperare l'immagine che voleva riprodurre esattamente sgrossando il legno con il metallo. E dopo qualche tempo si rese conto che era il tramonto, aveva riposto il coltello nella cintura, alzò gli occhi al celo contemplando una decisione. Sarebbe stato meglio rientrare in città a piedi ma avrebbe avuto difficoltà a trasportare la legna, e aveva in mente di recuperarne parecchia, quindi si diede da fare con l'operazione di recupero. Spogliò i suoi fratelli di ogni pezzo morto, morente o comunque destinato ad essere sacrificato. Una rozza ma efficace potatura insomma, e pulì il terreno. Quasi gli dispiacque per il futuro nutrimento di quella terra ma era necessario; caricò tutto sulla camionetta presa quella mattina e mise in moto.
Prima di dirigersi alla destinazione finale, la piazza, aveva dovuto fare un paio di cose: innanzitutto aspettare che la zona da lui designata fosse sgombera, e poi eliminare quella fastidiosissima luce artificiale, e anche così la diffusa luminescenza della città continuava a ferire gli occhi. Altro inquinamento che si sommava al resto... Era comunque decisamente meglio. Aveva spento ogni singolo lampione della piazza e praticamente tutti gli isolati attorno, forse un po' esagerato ma non era un elettricista, il corto circuito che aveva provocato evidentemente aveva coinvolto più di quel che aveva progettato. In ogni caso ora non ci sarebbero stati occhi a vederlo nella sua forma originale, era talmente naturale passare da una all'altra che non si rese conto del momento esatto in cui cominciò ad essere il legno, e non la carne, a svuotare il furgoncino, esattamente al centro del selciato che tappezzava la terra di quella piazzetta. Così prese dall'abitacolo il bastone intagliato la mattina e lo mise al sicuro, separò il serbatoio dal resto del veicolo (cosa che causò un po' di fracasso oltre che le perdita di integrità del mezzo) e ne sparse il contenuto sulla catasta, a quel punto si sbarazzò dell'ormai inutile ferraglia che finì all'angolo. Il rumore avrebbe svegliato qualcuno ma era già tornato in forma ibrida, nessuno l'avrebbe colto nella sua forma elementale. Prese l'accendino, preso anche quello alla mattina, già non ricordava più dove, e dopo un profondo respiro lo gettò sulla catasta. Quasi la fiamma non toccò nemmeno che la legna avvampò. A distanza di sicurezza Samhir osservò per un istante il rogo, mentre la bocca gli si seccava e le orecchie gli ricordavano l'ira malcelata dietro quel rombare delle fiamme. Il fuoco gli faceva sempre paura, anche quando era necessario maneggiarlo. Era un bene avere paura, il fuoco era distruzione. Era un bene sapere quando maneggiarlo, il fuoco portava vita nuova. Consumando quella vecchia, era un bene avere paura. La preparazione aveva richiesto tempo ma finalmente, attorno alla mezzanotte nella scansione dei giorni umana, ombre mulinarono sulle pareti degli edifici circostanti, richiamando la folla, sarebbero arrivati gli spettatori. Ma nessuno avrebbe preso parte al ballo, era pronto a scommetterci. La tribù non sarebbe arrivata.
E la sua ombra cominciò a muoversi, guizzante e veloce, percorrendo tutto il cerchio di mura. Con l'asta sciamanica intagliata di fresco, un po' rozza forse ma riproduzione fedele di quella del sacerdote della sua tribù, Samhir cominciò canti e balli. Si era anche cambiato, ovviamente, e chiunque fosse giunto avrebbe visto un indigeno africano ballare attorno al fuoco, con capelli verdi e intento ad elevare il suo canto agli uomini, così cechi e sordi.
Non poteva guarire quella terra ma forse avrebbe potuto dare una possibilità di aprire gli occhi a quella stolta gente.

Edited by Garet Jax - 16/5/2012, 13:38
 
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Midnight_Rose
view post Posted on 24/5/2012, 12:25




Vaga, Idunn, senza una meta che si possa definire tale e mette un piede davanti all’altro lasciando siano quelli a decidere dove portarla. Le scorrono accanto sporadiche vite più o meno insignificanti, avanzati esempi di tecnologia, animali condotti al guinzaglio o con un’illusione di libertà racchiusa tra le mura della città. Nulla cattura la sua attenzione, persa com’è tra un migliaio di pensieri che vorticano, si ricorrono, spariscono e ritornano. Ha creduto che l’asportazione dei ricordi le avrebbe permesso di trovar pace, in realtà l’aveva solo portata ad un livello superiore di indefinibile angustiarsi. Di buono c’è che non riuscendo a dare risposta alle sue domande le è più semplice lasciare che sfuggano via ed in un certo qual modo, quindi, ha trovato un po’ della tanta agognata tranquillità. Che sia frutto di un incanto non le interessa e così si dedica alle piccole attività che le fanno sentire libera. Un esempio? Girovagare in piena notte senza meta, col solo obiettivo di gustarsi la carezza tiepida dell’estate inoltrata che a breve volgerà all’autunno.
Fasciata da pantaloni in lino bianchi ed una graziosa camicetta porpora, l’elementale è accompagnata solo dal rintocco dei propri vertiginosi tacchi che ne indicano sia reale e non una fortuita apparizione celeste. I lunghi capelli sciolti, l’espressione distesa, le deliziose forme, la fanno assomigliare ad uno dei tanti soggetti femminili delle opere d’arte, il cui scultore o pittore ha voluto disegnare sul volto della sua donzella la più pura quiete. Come potrebbe non essere così, quando tutto intorno c’è solo silenzio: la città dorme, cullata dalle braccia di un premuroso Morfeo che la lascerà risvegliarsi solo quanto il sole inizierà a far capolino dall’orizzonte, timido e pigro nelle sue prime luci. La quiete è interrotta da qualche passante a cui presta ben poca attenzione, anime perse in un nulla che si sono costruite con le proprie mani.
Volge verso il centro storico cittadino senza saperlo, girando angoli, seguendo portici e vetrine solitamente illuminate e quella sera spente, così come molte delle luci tutt’attorno. Non vi presta troppa attenzione, addebitando il fatto ad un fortuito cortocircuito od a qualche altra ragione che non le interessava. Guidata dai propri piedi, finisce in una delle più belle piazze, in una delle sue preferite e meno frequentate: a delinearla quella che una volta doveva essere stata l’abitazione di qualche nobile settecentesco ed ora non è altro che un monumento in ricordo di un’epoca che fu. È grande, piena di viuzze che portano in ogni altro punto del centro cittadino. Lì dove la storia di Anderville è cristallizzata in costruzioni, dettagli d’altri tempi. Lì dove qualcuno ha acceso un fuoco. Enorme, brillante, enigmatico e misterioso brucia di braci accese e getta tremolanti luci su quanto lo attorni. Un dio che si mostra ai poveri mortali, un letale nemico ed un leale alleato per chi, come lei, sa come manipolarlo. L’odore acre della legna che brucia è un dettaglio del tutto insignificante. A distanza, immersa ancora per metà nell’ombra di un vicolo affacciato alla piazza, rimane ad ammirare. Ammaliata, le labbra appena dischiuse, osserva la magnificenza dello spettacolo che l’è stato offerto dal casa, senza riuscire a far scattare l’interruttore della razionalità che le avrebbe comunicato, come minimo, l’anomalia della situazione. È in pieno centro cittadino, non dovrebbe esserci un falò! Eppure riesce solo a sentire il richiamo del proprio elemento. Voce suadente d’amante che la invita a gettarsi tra le sue fiamme ardenti, lasciare accarezzare e rigenerare fin nelle più profonde ferite che ancora dolgono. Si lascia trasportare, muove alcuni passi ed esce dall’ombra permettendo alla luce rossastra di colorarla appieno, facendo brillare la sua chioma di riflessi rossi ed oro ed i suoi occhi della stessa energia delle fiamme. Intravede appena un’ombra che si muove e, ancora, non vi presta attenzione. Sta seguendo il pulsare del proprio cuore che sembra volerle indicare di gettare via le vesti ed immergersi nella materia che l’ha forgiata. Un minimo di creanza le dice di trattenersi. Vuole farlo? No. Deve farlo? Sì…
E ce l'ho fatta @.@
Dimmi se va bene, se ho fatto qualche castroneria e nel caso modifico.
 
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Garet Jax
view post Posted on 6/6/2012, 15:37




Una danza senza tempo che rapiva in sé e trascinava in un vortice di luci e colori, con un canto che rafforzava e amalgamava le menti in un unica potenza, in sintonia. Con la mente che si allontanava da quel luogo e vagava fra vicoli e strade, cercando umanità, cercando occhi in grado di vedere. Ovviamente non era una ricerca fisica vera e propria ma suonava come un eco muto, aspettando i riverberi delle persone. Non vedeva se stesso danzare, non vedeva i suoi abiti tribali, effettivamente bel poco coprenti (ma in fondo a quella distanza erano quasi troppi a causa del fuoco), non vedeva la sua pelle d'ebano gettare ombre sulle case monumentali. Il suo sguardo andava oltre, perforava senza soffermarsi su nulla, rapito da se stesso.
Fino a che non fu obbligato a fermarsi. Davanti ad una venere greca, o qualcosa di simile, in candido bianco e setoso porpora, dalla chioma fiammeggiante come il falò che stava fissando, rapita. E solo in quel momento si rese conto, ancora mezzo avvolto e perso nel turbinio nella danza, di ciò che aveva attorno. Aveva rilasciato la sua aura elementale espandendola il più possibile, rendendola fioca ed evanescente per arrivare alle massime distanza, aveva richiamato un suo simile (ne era certo in quella quasi trance irrazionale) e qualche umano che se ne stava a debita distanza senza sapere cosa dire, mormorando solo qualche vaga parola. Senza smettere di intonare il suo canto, agendo d'impulso, senza praticamente rallentare, infilò nella mano della donna lo scettro e la spinse per farle prendere parte alla danza. Le vorticò attorno cominciando una spirale attorno al fuoco. Si stava allontanando sì, ma era pronto a scommettere, senza motivo, che la donna non l'avrebbe seguito. Certamente non avrebbe fatto quello che lui voleva ma lei non si sarebbe allontanata. In qualche modo le aveva letto negli occhi. Quindi, dato che quella non avrebbe agito come lui avrebbe preferito, tanto valeva cambiare lui stesso.
Rallentò, lasciando scemare la voce, ma non fino a fermarsi; camminava praticamente quando recuperò il suo taccuino da una piega della stoffa ed estrasse il sax. Ormai non poteva più cantare ma nell'aria, sopra al suono delle fiamme, cominciò a spargersi un malinconico blues, perfetto per quelle atmosfere tipicamente anni '30 dei vecchi film nordamericani. Era un po' che non suonava quello strumento ma tutto sommato non si era arrugginito, era ancora piuttosto bravo. Portò lo sguardo, sovrastato da una fronte imperlata di sudore, fino alle persone che ancora stavano ai margini della piazza, a quelle che avevano superato le loro resistenze e si stavano avvicinando e, infine, alla donna che non aveva nemmeno vagamente esitato. Nell'aria l'aura della madre terra, colma di pace anche se piuttosto rarefatta, accompagnata dalla musica in uno strano spettacolo. Un indigeno africano sassofonista in una metropoli europea che indice autonomamente un falò nella piazza per raggiungere i cuori della gente di quella città morta. Morta negli abitanti. Era sicuro di star facendo la cosa migliore, perchè quella terra, la sua terra, era viva e non poteva fare altro che aiutarlo.
 
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